domenica 10 dicembre 2017

Assaporare la Dolcezza della Vita




Da "Brodo caldo per l'anima"
Pensa positivo

 Nel 1964 a LaPaz, in Bolivia, la fornitura di luce e acqua veniva interrotta ogni giorno alle 12:00 in punto. Lo sapevamo e accettavamo il razionamento come parte della vita.
 A mezzogiorno spaccato, le luci e la radio cessavano di funzionare e la buela( la nonna) sospirava dopo aver ascoltato un altro episodio del Conte di Istanbul, la sua soap opera radiofonica preferita. L'unica lampadina appesa al soffitto si spegneva, gettando la minuscole News Cola cucina in un'oscurità ancora più fissa noi portavamo avanti le nostre abitudini una volta tornati da scuola, io e mio fratello svolgeva amo un compito semplice e banale con i secchi di metallo che ondeggiavano al nostro fianco uscivamo dal cancello arrugginito e correvamo giù per Langusta discesa sterrata IPsec i sfera gli avevano mentre posava amo i piedi sulle pietre che usavamo a mo' di scalini il sentiero era ripido, disseminato di erbacce punti irregolari, sassi e detriti lì una volta raggiunto il campo polveroso, evitavamo i cani randagi che, comunque il loro corpi scheletrici e il loro pelo arruffato annunciavano qua e là in cerca di cibo. Poi scava il cava amo le pozze di fango e correvamo verso il rubinetto pubblico. di luce e acqua veniva interrotta ogni giorno alle 12:00 in punto . Lo sapevamo e accettava mo il ragionamento come parte della vita a 12:00 spaccato , le luci e la radio cessa vano di funzionare e la bella la nonna sospiro va dopo aver ascoltato un altro episodio del Conte di Istanbul la sua shop opera radiofonica preferita l'unica lampadina appesa al soffitto si spegneva , dettando la minuscole minuscola cucina in un oscurità ancora più fitta noi portavamo avanti le nostre abitudini una volta tornati da scuola , io e mio fratello svolgeva mo un compito semplice e banale con i secchi di metallo che onde già vano al nostro fianco uscivamo dal cancello arrugginito e corre ramo giù per la busta discesa sterrata i secchi Ferrara vano mentre potevamo i piedi sulle pietre che usava mo amo di scalini il sentiero era rigido , di seminato di erbacce punti irregolari , sassi e detriti una volta raggiunto il campo polvere uso , evita va mohicani randagi che , con loro corpi scheletri CEI loro te lo ha rubato al usavano qua e là in cerca di cibo . Poi scavalcare amo le pozze di fango e correva mo verso il rubinetto pubblico . Rischiando con gli amici che incontravamo sul nostro cammino mettevamo i nostri secchi in fila dietro quelli dei vicini il ritorno era più duro punto i secchi, pieni e pesanti virgola stendevano i rendevano il percorso ancora più lungo, perché ci fermavamo spesso per riposarci punto mentre il freddo vento delle Ande ci tagliava la faccia, mi sedevo su un masso e guardavo mio fratello che gettava rami secchi giù per il precipizio Allora

martedì 28 febbraio 2017

Un Santo allegro e simpatico




Viviamo tempi difficili e poco allegri e ci fa bene conoscere un  pò una persona che in ogni difficoltà ha saputo vivere in modo scherzoso ed ottimista,
Piero Lazzarin presenta san Filippo Neri in modo piacevole ed edificante. È un invito a cercare di vivere in modo più 'leggero'..

"Una frase di Filippo  "Pippo" Neri che merita di essere meditata per la sua bruciante attualità:"È possibile restaurare le umane istituzioni con la santità -egli diceva non  restaurare la santità con le istituzioni". La proferì in pieno clima di controriforma, quando abbondavano i profeti di sventure, i tetri accusatori, coloro che invocavano il braccio forte delle istituzioni per ridare slancio e autorità alla chiesa, dimenticando -e Filippo glielo voleva appunto ricordare - che solo l'amore di Dio e la santità possono portare sollievo alla chiesa.
Non fosse stato l'uomo di Dio che tutti ammiravano, a Filippo una lavata di capi da parte del Sant'Uffizio non gliela avrebbe risparmiata nessuno.
Ma a quel tempo Filippo, "Pippo bono" per gli amici, guai a toccarlo! Brillante, spiritosi, la battuta sempre pronta e pungente (da buon toscano) e tanta bontà, tanta comprensione e disponibilità per tutti, era diventato l'idolo dei monelli scarmigliati e inselvatichiti delle borgate romane. Li aveva raccolti nell'"Oratorio del divino amore" per dirozzarli, tenerli allegri, lontano dalle cattive compagnie e farli crescere uomini di dignità e cristiani per convinzione.
Per questi ragazzi, per la salute delle loro anime e dei loro corpi, Filippo non esitava a  mendicare per le strade o alle porte dei sontuosi palazzi. Un giorno un signore, ritenendosi infastidito dalle sue richieste, pensò di toglierselo di torno appioppandogli un ceffone. Filippo non si scompose:"Questo è per me -e ve ne ringrazio. Ora datemi qualcosa per i miei ragazzi".
Filippo era nato a Firenze nel 1515. Figlio di un notaio, rimase presto orfano della madre. Ebbe, nonostante quella perdita, un'infanzia serena, favorita anche dalla sua indole mite e allegra. Studiò musica, poesia e amò la bellezza della natura. A diciotto anni venne mandato a Cassino da uno zio mercante a imparare un mestiere. Dal bancone della bottega, lo sguardo poteva spaziare sul colle di Cassino sormontato dalla gloriosa abbazia, e dopo un pò Filippo non ebbe occhi che per quella!
Ma non era tagliato per la vita di monaco, Bazzico' per qualche mese i benedettini, ma poi decise di trasferirsi a Roma. dove seguì i corsi di studio che si tenevano alla Sapienza.
Neppure nello studio però trovò quello che cercava, tant'è vero che, a ventiquattro anni, fece un  fascio di tutti i libri che aveva (si tenne solo la Bibbia e la Summa Theologica di san Tommaso) e li vendette al mercato distribuendo il ricavato ai poveri..Dopo di che si trasformò in predicatore ambulante e in assiduo frequentatore dei quartieri più poveri della città, degli ospedali più abbandonati, delle carceri più tetre, portando ovunque, con la sua ilarità di toscanaccio purosangue, la testimonianza della più calda carità cristiana.
Nel 1551, a trentasei anni, ottenne di essere ordinato sacerdote. Subito dopo organizzò il suo primo oratorio, seme dell'istituzione che nel 1575 verrà definitivamente approvata con il titolo di "Congregazione dell'oratorio" perché fosse continuata nel tempo e possibilmente con il suo stile ("educare divertendo") la sua attività a favore dei ragazzi.
Per aver gettato in gioventù tutti i suoi libri (gesto che ripeterà poco prima di morire dando alle fiamme, stavolta, i suoi manoscritti), non dobbiamo pensare a Filippo come a uno zoticone ignorante. Tutt'altro! Aveva una solida cultura: fu consigliere di umili, ma anche di uomini illustri come papa Clemente VIII e San Carlo Borromeo.
Filippo era molto ricco interiormente, era umanissimo nei rapporti con gli altri e francescanamente aperto alla gioia di vivere, alla serenità, all'accettazione di sé e dei propri limiti, "Ritirati, Signore, ritirati, Trattiene l'onda della tua grazia", diceva quando aveva il cuore gonfio di felicità e di riconoscenza. Nello stesso tempo pregava il Signore di tenergli una mano sul capo "altrimenti Filippo, senza il tuo aiuto, ne fa qualcuna delle sue".
Durante la messa era a volte rapito in estasi, ma lui, per limitare quei "voli" che potevano tramutarsi in vanagloriosi spettacoli, teneva accanto al messale, pronto per l'uso, il libro delle Facezie del pievano Arlotto.
A messa conclusa, nel congedare i fedeli, era solito dire "La vostra ora di preghiera è finita, ma non il tempo di fare il bene", Era bravissimo nel tradurre in brevi massime la dottrina e la sapienza spirituale del cristianesimo e molti suoi detti, tramandati oralmente sono entrati a far parte del patrimonio di moltissime generazioni, e ciò dimostra il grande e decisivo influsso da lui esercitato sulla vita religiosa e sociale del suo tempo.
Morì a ottant'anni, dopo aver più volte rifiutato il cardinalato. I medici, esaminando la sua salma, trovarono il muscolo cardiaco più voluminoso del normale, mentre due costole si erano inclinate per far spazio ai battiti di quel cuore colmo  d'amore per Dio e per gli uomini. Venne canonizzato dopo un processo ricchissimo di testimonianze nel 1622, da Gregorio XV.







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domenica 19 febbraio 2017

Saggi Consigli



Nessuno ha più bisogno di un sorriso di colui che non ha più nulla da offrire (Cina)

Meglio un pezzo di pane sotto a una pianta, che un banchetto in prigione (India)

Ci vuole tutta una vita per capire che non è necessario capire tutto (Cina)

Erbe velenose crescono anche fra le erbe medicinali (Tibet)

Sorridi alla vita e la vita ti sorride (Cina)

It rimedio contro i tempi avversi è la pazienza (Arabia)

Il fondo del cuore è più profondo del fondo del mondo (Cina)

La sporcizia si toglie lavando, l'abitudine non si elimina facilmente (India)

I corvi sono dappertutto ugualmente neri (Cina)

L' insetto silenzioso attraversa la muraglia (Giappone)

È saggio essere severi verso se stessi e benevoli verso gli altri (Cina)

È meglio un nemico intelligente che un amico sciocco (Arabia)

domenica 12 febbraio 2017

Carnevale di VENEZIA, Omaggio al suo Passato


Da "STORIA DI VENEZIA" di Paolo Scandaletti

La voglia di vivere
La voglia di vivere, di abbigliarsi e far festa si esprimeva  al  suo acme nel Carnevale che non aveva eguali al mondo, coinvolgendo tanti: patrizi, popolani e foresti. Lo hanno descritto ed esaltato cronisti, poeti e scrittori come Voltaire nel suo"Candide": lo hanno raffigurato i pittori di secolo in secolo, fino a Canaletto, Guardi e Heinz. E naturalmente criticato censurato. Già nel 1567 contro le sue follie tuonava dai pulpiti veneziani un prete giovane e smilzo che studiava"leggi" a Padova e che sarebbe diventato una delle guide della Chiesa, il cardinale Roberto Bellarmino. Galileo invece, anche lui a Padova come giovane professore di matematica, si sarebbe entusiasmato per gli svaghi veneziani e vi avrebbe preso parte spesso con l'amico Giovanfrancesco Sagredo, assecondando la sua natura vitale e gaudente.
In maschera si mettevano tutti: la stragrande maggioranza indossava il*tabarro", cioè un manto nero che arrivava fino ai piedi, il tricorno in testa, sul volto la "larva" bianca a coprire gli occhi e la"bauta", la classica mantellina che scendeva sulle spalle. In tal modo nessuno avrebbe potuto riconoscere nessuno e questo consentiva di fare tutto ciò che in abiti normali, non sarebbe stato conveniente o agevole. Così si avventuravano tra la folla il Doge e i nobiluomini, le signore e le cortigiane, le carampane e le donnette, i pescivendoli e i Notari, e perfino frati, monache e e il nunzio apostolico.
Il tocco pittoresco e variopinto era dato invece dai veri travestimenti nei panni di maschere tradizionali come Arlecchino, Pantalone, Balanzone, Brighella, Pulcinella e Colombina, o in quelli più generici di diavoli, streghe, straccioni, lavandaie e serve, turchi, tedeschi, spazzacamini, straccivendoli, armeni, ebrei, assassini, avvocati e medici.
Ai poveracci  era consentito per un giorno di indossare anche la toga nera ed accedere ai palazzi dei patrizi: ai nobili travestiti da popolani di entrare nelle osterie malfamate e nei bordelli di second'ordine; alle loro donne di uscire senza cavalier servente e infilarsi furtive nelle stanze delle locande con qualche aitante gondoliere.
Tenendo conto che a Venezia qualsiasi occasione era buona per far festa e bisboccia, appare quasi anacronistico che il Carnevale avesse un suo calendario che si  apriva con la prima domenica  di ottobre, si sospendeva per Natale, riprendeva fino alla Quaresima e ancora dopo la Pasqua fino alla festa dell'Ascensione.
Come sempre, il clou si raggiungeva nei giorni "grassi", in particolare il giovedì, allorché nel Carnevale veniva ufficialmente coinvolto il Palazzo: alla Loggia Foscari si affacciava il Doge con i famigliari e la Signoria, mentre ai lati, sotto le arcate gotiche, c'erano i senatori, i capi del Consiglio dei Dieci, procuratori, savi e avogadori.
Nella sottostante piazzetta e in piazza, stipati davanti alla Basilica, si radunavano migliaia di Veneziani e foresti accorsi per vedere i "zoghi" e i "foghi" che si svolgevano per ricordare la vittoria sul patriarca di Aquileia, Ulrico avvenuta nel lontano 1170: l'ennesimo pretesto, ovviamente...